KRZYSZTOF WIELICKI – Quando scalare era esplorare
È stato il quinto alpinista al mondo a completare la salita dei 14 “ottomila” e l’esponente di punta di una generazione di alpinisti polacchi che negli anni ’80 affrontarono per primi i giganti del pianeta nella stagione invernale. Ma l’alpinismo a quel tempo, specialmente in Polonia, non dava da mangiare. E i lavori con la fune, nella Polonia degli anni 80, non erano poi tanto richiesti. “Noi eravamo bravi a inventarci i compiti” ride Krzysztof. Con un manico, un rullo e un secchio vanno a dipingere i muri di alti palazzi, torri di raffreddamento o ciminiere prestando la propria manodopera super specializzata. “Con queste attività riuscivamo a mantenere le nostre famiglie, nonostante per legge solo una piccola parte dei proventi derivanti dai nostri lavori in quota potesse essere destinata a noi e al mantenimento delle famiglie”.
Il primo teatro della sfida ai giganti della terra fu proprio l’Everest, salito da Wielicki con Leszek Cichy il 17 febbraio del 1980. Poi con Jerzy Kukuczka venne il Kangchenjunga nel 1986 e il Lhotse nel dicembre del 1988, in solitaria dal campo 3. Da capo spedizione, fino al 2018 non è stato da meno, guidando altre generazioni di alpinisti sul Broad Peak in inverno nel 2013 e tentando il K2 nel 2018.
Dimentichiamo per un momento i campi base riforniti dagli elicotteri, le squadre di sherpa che preparano i tracciati, riforniscono i campi lungo la via di salita, i cellulari, i telefoni satellitari, e meteorologi che ti calcolano la finestra di tempo buono utile a raggiungere la cima e soprattutto a scendere. La generazione di Wielicki, la stessa di Kukuczka, Majer, Zawada, Hazier, Piotrowsky, Wanda Rutkiewicz, (che è anche quella di Messner, Bonington, Scott), ha potuto vivere sugli ottomila un alpinismo autenticamente esplorativo, andando alla ricerca delle linee migliori su pareti difficilissime e sfidando il gelo e le tormente della stagione invernale. E lo ha fatto per molti anni con materiali auto costruiti, equipaggiamenti del tutto inadeguati e spesso riciclati, come occhiali da saldatore per proteggere gli occhi dal riverbero della neve e dei ghiacci. Del resto di più non concedeva l’autarchia dei paesi del cosiddetto socialismo reale.
“Volevamo scrivere anche i nostri nomi nella storia del grande alpinismo, ma per farlo dovevamo fare qualcosa mai fatto prima, e così ci inventammo l’alpinismo invernale in Himalaya”.